A ottobre, Oggiscienza ha ospitato uno speciale sulla scienza nella fantascienza e mi hanno chiesto di scrivere qualcosa. Io mi sono fatto prendere la mano e ho prodotto un po’ di roba, che ora ripropongo qui. Il quarto pezzo è la recensione di Index Zero, di Lorenzo Sportiello, premiato al festival della fantascienza di Trieste.
Un uomo e una donna arrancano attraverso un paesaggio desolato. Luci e colori plumbei, poche scarne parole, edifici fatiscenti. L’inizio di Index Zero – il film di Lorenzo Sportiello che ha appena vinto il premio Méliès d’Argent al Trieste Science+Fiction – è efficace, evocativo e ben diretto. Soprattutto, rappresenta una vera rarità: un film di fantascienza italiano. L’ultimo di cui si ha memoria è l’eccellente Nirvana di Salvatores, del 1997.
Se però nel cyberpunk di Nirvana c’era molto di italiano, la fantascienza distopica di Index Zero quasi non sembra un prodotto del nostro paese. Girato in Bulgaria, con un cast internazionale e un travagliato percorso di produzione, il film di Sportiello guarda a un pubblico (e a un mercato) più anglofono e si adatta di conseguenza, senza però trasformarsi in un prodotto commerciale.
Al centro della storia ci sono Kurt (un Simon Merrells piuttosto carismatico) ed Eva (la monoespressiva Ana Ularu), una giovane coppia che, in un futuro non troppo remoto, attraversa una landa desolata per raggiungere una città fortificata, all’interno della quale cercare rifugio e sicurezza per crescere una famiglia. Sì, perché Eva e incinta, e ciò, nel mondo in cui Index Zero è ambientato, è tanto una rarità quanto un problema.
Il film non fa troppi sforzi per contestualizzare: allo spettatore viene giusto fatto capire che siamo negli Stati Uniti d’Europa (USE) e che esistono complessi urbani fortificati, per accedere ai quali bisogna essere “sostenibili”. E qui entra in gioco quello che è il principale (per non dire l’unico) elemento di originalità di Index Zero ma, al tempo stesso, anche una delle sue debolezze: l’idea dell’indice di sostenibilità. Come ci viene spiegato dal più classico dei grigi burocrati, per diventare cittadini degli USE bisogna rientrare in una serie di parametri – legati allo stato di salute e al consumo di risorse – riassunti dall’indice di sostenibilità. Chi è al di sotto del cosiddetto index zero viene espulso. Coloro che provengono dall’esterno delle mura vengono sottoposti a una serie di analisi mediche per calcolare il loro indice. Quelli ritenuti potenziali candidati a diventare cittadini vengono confinati in centri di detenzione temporanea che ricordano molto i CIE (non a caso molte scene sono state girate in un vero carcere bulgaro destinato al controllo dell’immigrazione) e, in caso raggiungano l’index zero, potranno diventare cittadini.
Lo stato interessante di Eva rappresenta però un problema: il grigio burocrate ci spiega che, negli USE, le gravidanze naturali sono considerate poco sostenibili. I bambini nascono in uteri artificiali e, in ogni caso, solo da coppie che possono permettersi di “spendere” parte del proprio indice di sostenibilità. Kurt viene giudicato potenzialmente sostenibile e si trova quindi di fronte a un dilemma: abbandonare moglie e figlio pur di salvarsi oppure farsi espellere insieme a loro? In realtà non si tratta di un vero dilemma, perché la scelta di Kurt è ovvia. Meno ovvio – anzi, piuttosto confuso – è tutto ciò che succede dopo. Pur vedendosi offrire da una solidale dottoressa la possibilità di salvare tutta la famiglia (accettando però di separarsi dal figlio), Kurt decide che l’unica soluzione è ribellarsi e fuggire. La sceneggiatura, che fino a questo punto aveva retto, inizia a sfilacciarsi nel cercare di giustificare le conseguenze delle sue azioni.
L’atmosfera di paranoico controllo che il film si era sforzato di costruire inizia infatti a sbriciolarsi di fronte all’estrema facilità con cui Kurt ed Eva fuggono dal centro di detenzione. Il livello di credibilità scende ulteriormente quando i due finiscono in ospedale per il parto; se c’è una lezione che i thriller ci hanno insegnato, infatti, è di non andare mai in un ospedale quando si è braccati dalla legge. Soprattutto, verrebbe da aggiungere, quando ci si ritrova in una distopia orwelliana. La polizia, invece, dopo essere stata onnipresente per gran parte del film, non si fa mai più vedere, lasciando la storia libera di proseguire di gran carriera verso il finale, un inno alla ribellione tanto frettoloso e ingenuo quanto narrativamente forzato.
Ma il tracollo della sceneggiatura non è l’unico difetto di Index Zero. Come già accennato, l’idea dell’indice di sostenibilità, per quanto originale, solleva dubbi: di che sostenibilità si parla? A sentire il regista, dopo la proiezione, si parla di sostenibilità economica; nelle intenzioni di Sportiello, dunque, il film vorrebbe essere una critica a un sistema economico che considera le persone solo come numeri di un grande mercato, le cui esigenze vengono prima di quelle degli individui. Impossibile però non vederci un riferimento alla sostenibilità ambientale. Il solito grigio burocrate, infatti, difende l’utilità dell’indice di sostenibilità dicendo che senza di esso l’umanità non potrebbe sopravvivere su questo pianeta. Ora, i metodi repressivi usati per applicare questo indice sono indubbiamente feroci e criticabili, ma qual è la soluzione proposta dal film? Sparare ai poliziotti e abbattere il sistema. Per fare cosa? Non è dato saperlo. Inoltre, nulla ci viene detto sul resto della società degli USE. Sembra mancare quel minimo di world-building necessario a dare solidità e coerenza a un’ambientazione fantascientifica. L’indice di sostenibilità è lo strumento con cui un potere autoritario s’impone sulle masse oppure un sacrifico duro ma necessario per impedire al sistema di crollare definitivamente nell’anarchia? Il film non riesce a districarsi da questa ambiguità, il che rende ancora più ingenuo il semplicistico finale.
In questo, Index Zero sembra soffrire del difetto che attanaglia molta della fantascienza contemporanea, che si limita a ripetere certi meccanismi narrativi avvolgendoli nell’immancabile mantello della critica sociale, senza però fare alcun passo avanti nel cercare di analizzare e immaginare il nostro futuro. La società mostrata da Sportiello è tagliata con l’accetta: da una parte i cattivi (burocrati e poliziotti), dall’altra i buoni (poveri e ribelli). Uno schema ben oliato ma anche superficiale, che propone risposte facili a problemi complessi. Non che ci si debbano per forza aspettare risposte da un film, ma un’analisi più profonda, quello sì.
In conclusione, Index Zero è un prodotto cui vanno riconosciuti diversi meriti, soprattutto l’appartenenza a un genere che il cinema italiano mainstream si ostina a ignorare e una realizzazione tecnica di alto livello, a partire dall’ottima fotografia. Meriti che però non riescono del tutto a compensare i buchi di sceneggiatura e la superficialità dei contenuti. La speranza è che Sportiello, incoraggiato dal premio ottenuto a Trieste, possa fare di meglio nel suo prossimo lavoro.
su nirvana sono d’accordo con te,certamente superiore a quel polpettone senza senso di matrix di cui e’ a torto considerato da alcuni figlio minore.
a proposito,mi sono venuti in mente altri buoni film piu’ recenti : apollo 18,europa report.
l’ignoto spazio profondo,opera magistrale del grandissimo herzog,di inaudito impatto visivo,lo consideriamo fantascienza? se si e’ l’unico che puo’ essere messo a confronto con l’incommensurabile 2001.
index zero non l’ho visto ma credo che lo faro’. Penso sia dai tempi di Exit di Quartullo che non guardo un film di fantascienza italiano….