Imponenti sequoie che si alzano da un sottobosco fitto di lussureggiante vegetazione. Questo lo scenario nel quale Luke Skywalker, ne Il ritorno dello Jedi, incontra la razza degli Ewok, buffe creature simili a orsetti alti meno di un metro, che lo aiuteranno nella sua battaglia contro l’Impero. La foresta mostrata nel film è quella della luna boscosa di Endor, chiamata così proprio perché interamente ricoperta di boschi. Il corpo celeste dotato di un unico ecosistema è un’ambientazione ricorrente nel mondo di Guerre Stellari ed è, in generale, un vero e proprio classico della space opera. In un articolo su io9, James Whitbrook li chiama pianeti a uso singolo e li include in una lista di stereotipi che gli autori di fantascienza e fantasy potrebbero smettere di usare.
Pianeti di ghiaccio, pianeti interamente ricoperti da un unico oceano, pianeti desertici. La lista è lunga e potrebbe ulteriormente arricchirsi se vi includessimo anche quei pianeti che producono una sola risorsa, naturale o artificiale che sia. L’obiezione che Whitbrook solleva è la loro scarsa plausibilità scientifica, sebbene vi siano eccezioni in cui la presenza di un singolo ecosistema è giustificata. È il caso di Tatooine, trasformato in un deserto dai bombardamenti della razza aliena Rakata, per non parlare del più famoso dei pianeti desertici, quell’Arrakis intorno al quale ruotano le vicende della saga di Dune, la cui ricostruzione è stata molto apprezzata dal planetologo della NASA Kevin Zahnle.
Ciò non toglie che la critica di Whitbrook abbia un senso, non tanto per una questione di ammissibilità scientifica ma perché forse, in fondo, ne abbiamo visti abbastanza di pianeti monodimensionali. La scienza in questo può venire in aiuto di scrittori, sceneggiatori e sviluppatori di giochi, non tanto per decidere cosa potrebbe essere fatto e cosa no, ma per offrire spunti e idee per arricchire i pianeti con cui popolare le storie di fantascienza. Ciò li renderebbe più vari, realistici e convincenti, andando quindi a incrementare il sense of wonder di lettori, spettatori e giocatori che si ritrovano immersi in questi mondi. Di esempi, a questo proposito, ce ne sono diversi, dal pianeta Hyperion a Pandora, la cui creazione ha coinvolto diversi consulenti scientifici e linguistici.
Ma i pianeti non sono gli unici elementi narrativi a soffrire di monodimensionalità. Nel suo articolo, Whitbrook critica un altro stereotipo comune tanto alla fantascienza quanto al fantasy: quello dell’assoluta omogeneità di razze e specie non umane. Un punto delicato, perché tira in ballo un nume tutelare come Tolkien: riuscite a immaginarvi un elfo della Terra di Mezzo che non abbia i capelli lunghi, non ami la natura e non sia un arciere provetto? Probabilmente no. Pur comprendendo individui con opinioni e atteggiamenti diversi, nella maggior parte dei casi le razze fantasy e le specie aliene appaiono come entità molto omogenee, la cui caratterizzazione si basa su pochi tratti molto stereotipati. Anche qui, la lista è lunga, dai già citati Ewok agli orchi di Azeroth, fino a includere gli stessi Na’vi di Pandora, la cui cultura non sembra particolarmente ricca e diversificata. Una caratteristica, questa, che risalta ancora di più quando queste razze interagiscono con l’umanità, che invece è spesso rappresentata com’è nella realtà, con tutta la sua ricchezza di differenze culturali, politiche e religiose.