Ci sono casi in cui una malattia può essere vantaggiosa. L’anemia falciforme, per esempio, riduce la mortalità delle persone affette da malaria e potrebbe quindi essere stata “premiata” dalla selezione naturale in quelle aree dove la malaria è endemica. Le malattie sono fenomeni complessi nei quali entrano in gioco diversi fattori. Ciò nonostante, è idea diffusa che per debellarle sia sufficiente sconfiggere l’agente patogeno o correggere il malfunzionamento genetico che le provoca. Questo approccio è molto radicato nella medicina moderna e si basa su una visione ingegneristica del corpo e delle sue funzioni: l’organismo è come una macchina e la malattia non è altro che un guasto di una delle sue componenti. Per curare un individuo è quindi necessario capire come sia avvenuto questo guasto e intervenire per ripararlo, cercando di ripristinare le condizioni ottimali della macchina.
Ma è davvero così?
Che un virus possa essere responsabile di un’infezione è innegabile, ma ridurre una malattia a una sola e unica causa significa perdere di vista molti altri fattori, dalle condizioni ambientali e culturali alla storia filogenetica dell’uomo e dei microrganismi con cui interagisce. Lo studio integrato e multidisciplinare di questi elementi è alla base della medicina evoluzionistica, una disciplina fondata all’inizio degli anni Novanta combinando biologia evolutiva, antropologia, genetica e microbiologia, con lo scopo di sviluppare un approccio più completo alla comprensione e alla cura delle malattie. La medicina si è sempre concentrata soprattutto sul come ci si ammala. I sostenitori della medicina evolutiva sono anche interessati a comprenderne il perché.
Fondatori di questa disciplina furono il biologo George Williams e lo psichiatra Randolph Nesse, che nel 1991 firmarono un articolo intitolato L’alba della medicina darwiniana.
Alla base del loro approccio c’era l’assunto che ciascuna patologia potesse essere spiegata in termini evolutivi. Già negli anni Quaranta iniziava a emergere l’idea che alcune malattie potessero fornire vantaggi agli individui infetti, come nel caso già citato dell’anemia falciforme. Secondo Williams e Nesse, la malattia non doveva più essere vista soltanto come un tratto svantaggioso che sfugge alla selezione naturale, o uno strumento tramite il quale la selezione stessa elimina gli individui più deboli. Al contrario, essa poteva anche essere una componente necessaria di un meccanismo di adattamento o una conseguenza accidentale del suo funzionamento. In altre parole, un vero e proprio compromesso evolutivo.
Sintomi patologici come febbre e tosse vanno interpretati come strumenti di adattamento che consentono di uccidere virus e batteri estranei o di espellerli dalle vie respiratorie. Il che significa che, in alcuni casi, combattere la febbre potrebbe rallentare il processo di guarigione.