La scienza è in continua evoluzione, come la società di cui fa parte. Di conseguenza, anche il rapporto fra di esse si trasforma. Un cambiamento che si riflette a sua volta nel modo in cui la scienza viene raccontata e spiegata. Per parlare di queste trasformazioni e di come esse influiscano sulla comunicazione della scienza, soprattutto per quanto riguarda i temi della biologia e dell’evoluzione, abbiamo chiesto il parere di Telmo Pievani, filosofo ed epistemologo italiano, professore associato presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. A queste attività di insegnamento e ricerca epistemologica, Pievani unisce anche un forte impegno nell’ambito della comunicazione della scienza.
La scienza è coinvolta in molti dibattiti pubblici, su temi che coinvolgono anche altre discipline come la politica, l’etica, l’economia, la filosofia o la religione. Che si tratti di riscaldamento globale, di terapie con cellule staminali embrionali, di evoluzione o sperimentazione animale, come funziona il dibattito su questi argomenti all’interno della comunità scientifica?
La scienza si alimenta di dibattiti, a volte anche molto accesi. In queste discussioni ci sono scienziati che all’inizio sostengono posizioni minoritarie ma che, lavorando seriamente e raccogliendo prove, convincono altri colleghi circa la fondatezza delle proprie ipotesi, che possono così arrivare a diventare teorie corroborate e dominanti. La scienza è un’attività continua, come scrisse una volta Karl Popper, non poggia sul cemento ma è come una palafitta. In un certo senso potremmo dire che è una disciplina artigianale. Questa è anche la sua fortuna, dal momento che non ci sono né dogmi né autorità. Il problema è che il funzionamento di questo laborioso dibattito interno è difficile da far comprendere a chi non è un addetto ai lavori. Ciò genera un corto circuito comunicativo che può a sua volta avere delle conseguenze serie.
Quando si può parlare di consenso scientifico su un determinato tema?
Ci sono temi sui quali si dice che c’è consenso perché i dati raccolti e le loro interpretazioni hanno convinto la maggioranza della comunità scientifica, in particolare coloro che hanno studiato nel dettaglio il tema in questione. Ciò però non significa che questo consenso sia inciso nella pietra e quindi immutabile. Al contrario, esso rappresenta la spiegazione più plausibile, quella che, in quel momento e con quei dati a disposizione, ha convinto la maggior parte degli studiosi oltre ogni ragionevole dubbio. Il fatto è che spesso il dibattito scientifico arriva al grande pubblico in una versione distorta, dove tutta la sua complessità viene ridotta a uno scontro fra due rappresentanti di posizioni radicalmente opposte. Questo tipo di racconto mediatico può funzionare in una tribuna politica ma non in un dibattito scientifico, perché suggerisce l’idea di una comunità spaccata a metà su certi temi anche quando in realtà non è così. Non si possono mettere sullo stesso piano una posizione solida e fondata su un’ampia mole di dati con una opinione dotata di uno scarso supporto scientifico. La posizione di minoranza è legittima, ma ciò non significa che ci sia un’evidente spaccatura come il formato “uno contro uno” sembra suggerire. Per non parlare delle volte in cui posizioni largamente condivise dalla comunità scientifica vengono equiparate a ipotesi prive di qualsiasi fondamento scientifico.
Parlando di posizioni minoritarie, quella del pensatore libero in lotta contro l’establishment della cosiddetta “scienza ufficiale” è una figura che ritorna spesso in molte narrazioni che contestano teorie scientifiche riconosciute e validate.
È vero, è un’immagine molto diffusa e molto efficace dal punto di vista comunicativo, perché fa leva sull’ideale romantico del ribelle in lotta contro il sistema che vuole zittirlo. Il fatto che alcune delle più grandi conquiste scientifiche siano dovute alla tenacia di studiosi le cui teorie erano inizialmente minoritarie non significa che tutte le teorie minoritarie siano scientificamente valide. Anzi, molto spesso non lo sono. Per ogni teoria minoritaria che guadagna consenso e diventa dominante, ce ne sono molte altre che, in mancanza di prove solide e spiegazioni plausibili, si perdono e svaniscono.
Fra i difensori delle posizioni scientifiche “ufficiali” è invece molto diffusa l’idea che chi critica la scienza lo fa perché non la capisce.
Purtroppo succede, nonostante le indagini sociologiche ci dicano che non è così. Non è affatto vero, per esempio, che vi sia una proporzione diretta fra il basso livello di istruzione di una persona e le sue posizioni antiscientifiche. L’ha scritto anche Nature ma è un’osservazione che non sempre viene presa in considerazione. Al contrario, a volte un buon livello culturale è proprio quello che porta alcune persone a leggere e a informarsi, e quindi ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della scienza, che non necessariamente si traduce in un’opposizione estremista e ideologizzata. La critica ha diverse sfumature è va capita, perché dietro di essa possono celarsi paure e timori che non possono essere liquidati con una scrollata di spalle.