Da Oggiscienza, 25 gennaio 2017
Dodici astronavi, dodici enormi monoliti scuri che atterrano in diversi punti del pianeta. Il panico si diffonde e i governi reagiscono inviando squadre di esperti per tentare di dialogare con gli alieni. Inizia così Arrival, l’atteso film di fantascienza di Denis Villeneuve che ha suscitato grande interesse all’ultimo Festival di Venezia e che ha raccolto otto nomination ai premi Oscar, fra le quali Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura non originale.
A guidare la squadra americana ci sono la linguista Louise Banks (Amy Adams) e il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner), coordinati dal colonnello Weber (Forest Whitaker). Verrebbe da chiedersi come mai, fra gli esperti incaricati di prendere contatto con una forma di vita aliena sconosciuta, non ci sia neanche un esobiologo, ma possiamo soprassedere su questo punto. Il timore di una possibile minaccia genera una crescente spirale di tensione che renderà i tentativi di interazione di Louise e Ian una corsa contro il tempo per decifrare le intenzioni dei misteriosi alieni, prima che la situazione degeneri.
L’inizio di Arrival è potente. Come già dimostrato nei suoi precedenti film, Villeneuve sa prendersi il tempo necessario per costruire la tensione narrativa con cui alimentare la storia, rallentando il ritmo e lasciando crescere l’aspettativa. L’impatto suggestivo e coinvolgente del primo contatto non viene smorzato dagli incontri successivi, nonostante parte del mistero – perlomeno per quanto riguarda l’aspetto degli extraterrestri – venga svelato. Anche perché rimane il mistero più grande, quello riguardante le loro intenzioni. Accanto a questa vicenda se ne sviluppa un’altra, più personale, che riguarda Louise e il grave lutto famigliare con cui deve fare i conti.
La linguista è il centro del film e Amy Adams è bravissima a reggere sulle spalle questa responsabilità, dando vita a un personaggio ricco di sfumature espressive che si alternano fra il dolore, la stanchezza e la lucida consapevolezza delle scelte che si trova a dover affrontare. Chi invece non convince è Jeremy Renner, con la sua piatta interpretazione di Ian. A sua discolpa va però detto che il personaggio è piuttosto monodimensionale e non offre spunti a cui appigliarsi. E qui entra in gioco una delle importanti differenze fra il film e il romanzo che l’ha ispirato.
Sì, perché Arrival è tratto da un racconto di Ted Chiang, Storia della tua vita, che fa parte di un’omonima raccolta. E, nel racconto, il ruolo di Ian ha molto più peso, perché i suoi studi sulle conoscenze scientifiche degli alieni si vanno a intrecciare con le scoperte linguistiche di Lousie, creando la base per la rivelazione principale della storia. Rivelazione che si fonda su due teorie: il principio di minima azione, fondamentale nella fisica moderna, con applicazioni che vanno dalla termodinamica alla meccanica quantistica fino alla teoria delle stringhe, e l’ipotesi di Sapir–Whorf, secondo la quale la struttura di un linguaggio influenza la visione del mondo e i processi cognitivi di chi lo parla.