L’Impero del sogno è l’ultimo romanzo di Vanni Santoni, scrittore fiorentino e direttore della narrativa di Tunué, che con La stanza profonda è stato candidato al Premio Strega. Nasce come prequel dei due fantasy della saga di Terra Ignota e racconta la breve – l’intero arco narrativo occupa una dozzina di giorni – ma intensa avventura vissuta da Federico Melani, detto Mella, già comparso in un altro libro di Santoni, Gli interessi in comune. Indolente ventenne toscano, in conflitto con qualsivoglia autorità, che si tratti della madre, dell’Università o della società in generale, Mella inizia a fare uno strano sogno. Un sogno continuo, che prosegue a ogni momento di sonno e che lo conduce fino a un’accesa riunione con creature d’ogni tipo, dove si trova a dover prendere una decisione difficile, riguardante il destino di una bambina dalle grandi potenzialità. Ha così inizio un’avventura frenetica e surreale, una parodia del genere young adult e dell’esoterismo complottista, una sorta di Storia infinita sotto anfetamine, infarcita di riferimenti colti e di one liner da cinema d’azione anni ’80 e ’90, costruita a livelli come un picchiaduro a scorrimento orizzontale o un hack’n’slash alla Diablo, con punte splatter alla Metal slug.
Attenzione però, Quello de L’Impero del sogno non è quel citazionismo fine a sé stesso alla Ready Player One che ultimamente va sempre più di moda. È piuttosto un trarre forza dalla capacità del fantasy di penetrare in media diversi – giochi di ruolo, videogiochi, fumetti, anime, illustrazioni artistiche, cinema, serie tv – influenzandoli e al tempo stesso assorbendo da loro idee, archetipi, strutture narrative.
Santoni non vuole soltanto raccontare un’avventura adrenalinica e imbottita di riferimenti alla cultura nerd. Vuole raccontare la genesi di un mondo che su questi riferimenti è fondato. Vuole spiegare perché nella saga di Terra Ignota uno dei personaggi riusciva a parare una spada con i denti, come nel Berserk di Miura, e perché c’erano città che ricordavano le Città invisibili di Calvino. Vuole mostrare da dove derivano gli archetipi e le atmosfere, i personaggi e i nomi, le suggestioni visive e le simbologie su cui erano basate le vicende di Ailis, Vevisa, Brigid.
Questo processo creativo è rappresentato dai libri che Mella fa leggere alla bimba durante la sua rapidissima crescita: dai manuali di Dungeons & Dragons all’Orlando Furioso, da Plotino a Neil Gaiman, da René Guénon a Lolita, da Valdimir Propp al Berserk di Miura, dal Ramo d’oro all’Edda di Snorri Sturluson. Lo stesso Mella e la sua alleata Livia saranno ispirazioni per la bimba e quindi per il mondo di Terra Ignota, essendo le figure di riferimento che la accompagnano. Man mano che la storia procede i due giovani diventano sempre più battaglieri e consapevoli della natura metanarrativa della loro impresa, e Mella impara a usare la fantasia per vincolare e sopraffare gli avversari, o per trasformare reperti museali in veri e propri oggetti magici.
L’escalation è inarrestabile ma ben presto Mella si rende conto che il culmine dell’impresa non sarà un epico Ragnarok, ma solo un’altra tappa di una cruda e pragmatica kill list. “Una volta che ho avuto la possibilità di crearlo davvero, il mio mondo, ed è venuto fuori così. Avrei potuto guardare al futuro, ero ancora fermo a rielaborare la mia infanzia; potevo cercare me stesso, ho trovato volontà di potenza; dovevo preparare una bimba a generare un mondo, l’ho educata a una violenza estetizzante, adolescenziale.” Così il protagonista realizza, non senza una certa amarezza, che piega ha preso l’avventura. Ma, d’altronde, “Le città come i sogni sono fatte di desideri e paure”, come gli ricorda Livia citando proprio Le città invisibili. In queste due frasi sta il cuore del romanzo, almeno per quanto riguarda la sua chiave di lettura metanarrativa.