Ho finito Come non scrivere di Claudio Giunta e confermo l’impressione iniziale. Aggiungo che ha nutrito e incoraggiato la mia passione per uno dei momenti più belli della scrittura: quello in cui prendi forbici e lima, e aggredisci quello che hai scritto eliminando il superfluo. Non sempre ti riesce, ma quando ce la fai la soddisfazione è massima.
Ho scoperto Glen Cook con la prima trilogia della Black Company e gli ho subito voluto bene. Sarebbe da far leggere a tutti quelli che il fantasy dark e moralmente ambiguo l’ha inventato Martin. Ma non divaghiamo: Sweet silver blues è il primo romanzo della serie di Garrett P.I., che come suggerisce il nome è un investigatore privato. In un mondo fantasy. C’è la giusta dose di cinismo e sarcasmo che ci si aspetta da un noir, insieme a gnomi, troll, nani e un sacco di ibridi fra cui il compare mezzelfo del protagonista, che mena come un fabbro e cerca di convincerlo a intraprendere una dieta vegetariana. Il mix funziona anche se la non troppo caratterizzata ambientazione resta in secondo piano rispetto alla trama. A Cook piace sottintendere, il che è bene perché evita gli spiegoni, però a volte mi lascia disorientato e nell’ultima parte del romanzo la storia si ingarbuglia un po’ troppo. Però nel complesso è stata una buona lettura.
Non solo Michael Swanwick ha delle splendide idee, ma essendo un eccellente scrittore sa anche gratificarti per il modo in cui allinea le parole nel raccontartele. Un suo romanzo a cui tengo molto è Gli dei di Mosca, un’avventurosa e travolgente storia di intrighi e misteri ambientata in un mondo bio-punk post-apocalittico dove ancora esistono i demoni dell’internet sopravvissuti alla purga delle macchine, i cui protagonisti sono due truffatori: un malinconico inglese e un cane americano geneticamente modificato che cammina su due zampe e parla con l’accento del Vermont. Se questa descrizione non vi ha conquistato, non so che altro dirvi. Il cane che diceva bau è il racconto che ha visto nascere la coppia di truffatori e il folle e bellissimo mondo in cui si muovono. Ora che l’ho letto mi è tornata voglia di rileggere Gli dei di Mosca.
Se a Glen Cook piace il sottinteso, che dire di Elmore Leonard? Tutti parlano dei suoi dialoghi, che infatti sono talmente belli da essere a volte frastornanti per i repentini cambi di argomento, le allusioni a cose note ai personaggi ma non necessariamente ai lettori, le sfumature, le inflessioni e i tanti dettagli sui personaggi che Leonard infila fra una battuta e l’altra. Raylan – quello di Justified – non mi ha colpito come altri suoi romanzi ma Leonard è uno di quelli che anche a leggerne una lista della spesa si finisce comunque per imparare qualcosa sullo scrivere.
Ho letto i primi romanzi del ciclo dei Re sassoni di Bernard Cornwell uno in fila all’altro, poi mi sono fermato. Non perché mi fossi stufato delle vicende di Uthred di Bebbanburg – tramite il quale l’autore ripercorre i conflitti fra danesi e sassoni in quella che, nel IX secolo, ancora non era Inghilterra – ma perché una pausa ci stava. È stato bello tornare in quelle terre con La morte dei re, sesto episodio del ciclo. Cornwell è un onesto artigiano che fa quel che deve fare: raccontare una storia e al tempo stesso una vicenda storica senza toni accademici e senza infarcire i dialoghi di quegli insopportabili info-dump che azzoppano molti romanzi storici. Non sarà il più raffinato degli scrittori ma è riuscito a coinvolgermi in 400 pagine di attesa di uno scontro continuamente rinviato, sullo sfondo di uno scenario complesso di alleanze, tradimenti e discordie che risulta vivace senza bisogno di inseguire la spettacolarità a tutti i costi. E non mi pare poco.
Ho sfogliato le prime pagine di Cometa e ho subito deciso di comprarlo, catturato dallo stile incisivo di Gregorio Magini. Parla di Raffaele, erotomane compulsivo e narcisista che può permettersi di non lavorare, di Fabio, programmatore socialmente inetto, e della loro strana amicizia. Arrivato a metà, l’entusiasmo si è raffreddato. Arrivato a tre quarti, volevo solo finire e passare ad altro. La scrittura di Magini in certi momenti continuava a piacermi, più spesso mi annoiava con le sue alterazioni e divagazioni postmoderne che (forse) volevano essere grottesche ma mi suonavano forzate, compiaciute e costruite a tavolino. E dopo un po’ mi hanno annoiato anche le storie di Raffaele e Fabio, che (forse) volevano essere archetipi della loro generazione, che poi è anche la mia, ma che a me son sembrati solo due disagiati che ogni tanto combinano qualcosa di buono e più spesso si autoavvitano nelle loro sconfitte, persi in un vortice di amori incompiuti, vuoti esistenziali, psichedelia, gente che scopa si droga e si isola, solitudini, filosofia e roba pop, deliri cosmici e paranoie.