Da Oggiscienza, 30 maggio 2018
La magia è uno degli elementi chiave della narrativa fantasy. Può essere più o meno diffusa, vista con sospetto o ammirazione, un dono innato o una capacità acquisibile con studio e impegno. Le sue manifestazioni e applicazioni cambiano a seconda del mondo immaginario in cui si è immersi.
Secondo John Campbell – editore di Astounding Science Fiction e una delle figure centrali della Golden Age della fantascienza – l’unica regola del fantasy è di creare nuove regole ogni volta che sia necessario. Nella fantascienza, invece, si parte da un postulato e se ne sviluppano le logiche conseguenze. Campbell scrisse questa definizione negli anni ’60 del secolo scorso, ma da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e il genere fantasy si è evoluto.
Fra gli autori contemporanei c’è chi, come Brandon Sanderson (autore di saghe come Mistborn, Elantris e Le Cronache della Folgoluce), ritiene che nel fantasy non sia valido tutto e che la magia debba avere regole. Senza di esse, argomenta Sanderson, si corre il rischio di usarla come deus ex machina per risolvere i conflitti che i personaggi devono affrontare, indebolendo la tensione narrativa e la consistenza della trama.
Da queste riflessioni sono nate le Tre Leggi della Magia di Sanderson.
Soffermiamoci sulla prima: “La capacità dell’autore di risolvere in modo soddisfacente i conflitti fra personaggi tramite la magia è direttamente proporzionale al modo in cui il lettore è messo in grado di comprendere il funzionamento della suddetta magia nel contesto della narrazione”.
Sanderson distingue due tipi di sistemi magici. Quello più diffuso nel fantasy tradizionale è il soft magic, dove la magia contribuisce a creare il sense of wonder, senso del fantastico. Il Signore degli Anelli rientra in questa categoria: Tolkien non spiega come funziona la magia e lascia intendere l’esistenza di poteri inimmaginabili, ma raramente la usa per far procedere la trama. I personaggi, soprattutto gli hobbit, superano gli ostacoli che si trovano di fronte grazie alle proprie doti, che il lettore conosce, e non grazie a prodigi sconosciuti. La magia di Tolkien non è un deus ex machina.
Nei sistemi hard magic, invece, l’autore spiega come funziona la magia nel suo mondo. Così facendo, la rende uno strumento narrativo che può anche essere usato per risolvere la trama senza fare brutti scherzi al lettore. E qui iniziamo a parlare un po’ anche di scienza, perché l’esempio citato da Sanderson non è un fantasy ma le Leggi della Robotica di Asimov (ricordate quando Google ne ha proposto una sua versione aggiornata?).
«Nelle sue storie di robot, Asimov delinea tre distinte leggi, che non viola né modifica mai», scrive Sanderson sul suo sito. «Dall’interazione di queste tre leggi tira fuori dozzine di eccellenti storie e idee». Anche i supereroi rientrano in questa categoria: quando leggiamo un fumetto o guardiamo un film, sappiamo cosa possono fare Magneto o Thor con i loro poteri.
A livello narrativo il confine fra una magia logica e una scienza/tecnologia fantascientifica può diventare molto sottile. Tant’è vero che Sanderson, nei suoi romanzi, preferisce puntare su sistemi hard magic e dichiara apertamente di trattare la magia come se fosse scienza. Lo fa perché si diverte, perché funziona come strumento narrativo e perché così può puntare più sullo svelamento dei misteri e sulle scoperte rispetto al misticismo, che a lui non interessa.
Non spiega tutti i dettagli dei suoi sistemi – noi per primi non conosciamo tutto delle leggi di natura – ma si limita a fornire al lettore gli strumenti necessari per capire cosa la magia può fare e cosa no. Difficile non pensare all’ultima di un altro famoso terzetto di leggi, quelle di Arthur C. Clarke: «Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia».
La (fanta)scientificizzazione della magia è un fenomeno che si sta diffondendo nel fantasy, stimolando nuove e creative esplorazioni del rapporto fra magia e scienza. C’è un rischio, però: quello di focalizzarsi troppo sui meccanismi magici perdendo di vista personaggi e trama.
È l’allarme che lancia la scrittrice Nora K. Jemisin (autrice della Inheritance Trilogy, della Dreamblood series e della Broken Earth Trilogy) in un post sul suo blog nel quale lamenta l’ossessione che molti autori fantasy hanno per la magia, che «deve avere regole. Deve essere logica. Deve avere limitazioni, conseguenze, scambi di energia, consistenza interna, chiari rapporti di causa ed effetto, leggi meticolosamente sperimentate con risultati ripetibili».
La magia, secondo Jemisin, deve invece sfidare la logica e la comprensione, deve innescare il sense of wonder superando i limiti di ciò che già conosciamo, portandoci là dove la scienza non può arrivare. Se la si razionalizza troppo, la magia smette di essere tale. Diventa qualcos’altro, un fenomeno eccezionale, sorprendente, irreale per le conoscenze attuali – come i viaggi a velocità superluminali, la psionica, o gli stessi poteri che Jemisin descrive nei suoi romanzi (senza chiamarli magia) – ma comunque analizzabile, comprensibile. E quindi non magico.
Jemisin non disprezza la magia meccanicista (ha anche apprezzato il sistema magico inventato da Sanderson in Mistborn). Il problema, dal suo punto di vista, è che il fantasy meccanicista domina il mercato grazie ad autori come Patrick Rothfuss, Robert Jordan, David Eddings, il che porta a un forte rifiuto dell’approccio non-meccanicista al genere.