Scienza e magia. Due forme di conoscenza antitetiche, una associata alla razionalità e all’indagine dei misteri della natura, l’altra associata a superstizioni irrazionali e fede nel sovrannaturale.
Ma è davvero così?
Questa la domanda che si è posto Matt Kaplan, corrispondente scientifico dell’Economist e da tempo appassionato dei punti di contatto fra scienza e mito, come si evince dal libro che ha pubblicato nel 2013, The Science of Monsters, purtroppo non ancora tradotto in Italia. La vittoria della Knight Science Journalism Fellowship del MIT nel 2014 gli ha consentito di lanciarsi in una lunga indagine scientifico-giornalistica per approfondire ulteriormente l’argomento. Il risultato di quasi un anno di studi, ricerche di laboratorio, esplorazioni sul campo e interviste a esperti è il libro Scienza del magico, pubblicato lo scorso aprile da Codice Edizioni.
E alcuni fatti che non avrebbero dovuto essere dimenticati andarono perduti. La storia divenne leggenda e la leggenda un mito.
Così dice Galadriel, la regina elfica de Il Signore degli Anelli, nella citazione che apre il primo capitolo di questo libro. Ciò che Kaplan si propone di fare è di percorrere all’indietro questo processo, partendo dal mito per arrivare a quei fatti che potrebbero averlo fatto nascere.
Un ottimo esempio in questo senso è quello della protezione di Horus.
Dio dei cieli, della guerra e della caccia dell’Antico Egitto, era rappresentato come un uomo dalla testa di falco. Molte specie di falco hanno strisce scure intorno agli occhi e questo aveva probabilmente indotto i seguaci del dio a tracciare strisce simili con pesanti trucchi verdi e neri intorno ai propri occhi. Al di là della questione estetica, questa pratica pare conferisse una sorta di protezione magica – non a caso l’occhio di Horus era diventato un simbolo di guarigione. Spulciando la letteratura scientifica, Kaplan ha scoperto che quei trucchi contenevano piombo, la cui tossicità non sembrava molto in linea con le leggende. Ma uno studio del 2009 ha rivelato che gli ioni di piombo rilasciati da alcune sostanze – laurionite e fosgenite – usate dagli antichi egizi per produrre i trucchi possono mimare l’attività degli ioni calcio e stimolare le difese immunitarie mediate dall’ossido nitrico. L’esposizione quotidiana a bassi livelli di piombo potrebbe quindi aver potenziato le difese degli occhi dei seguaci di Horus, salvandoli da quelle infezioni che avrebbero potuto renderli ciechi. Non dimentichiamo che a quell’epoca ci si lavava la faccia nelle acque del Nilo, spesso contaminate da escrementi animali.
Ma Kaplan non si è limitato alla ricerca bibliografica e alle interviste a esperti. Forte della sua formazione scientifica – una laurea in paleobiologia – in alcuni casi si è cimentato direttamente con la ricerca di laboratorio.
È inodore, insapore e si scioglie velocemente nei liquidi. Ed è letale. Sono le caratteristiche che hanno reso per lungo tempo il triossido di arsenico il veleno perfetto, creato nel VIII secolo e molto gettonato per risolvere svariate questioni politiche. A quei tempi giravano voci su diversi possibili rimedi a un eventuale avvelenamento: dai corni di unicorno (in realtà denti di narvalo) alle coppe fatte con le pietre di una grotta di Malta, dai denti di squalo alle concrezioni calcaree chiamate bezoar (che in persiano significa antidoto e che compare anche in Harry Potter), estratte dallo stomaco di capre e pecore. Tutti elementi accomunati dalla presenza, in forme diverse, di calcio. Incuriosito da queste leggende, Kaplan si è messo al lavoro con tossicologi e ingegneri ambientali del MIT e dell’Università del Massachusetts per vedere se l’uso di determinate pietre, denti fossili o composti del calcio potesse in un qualche modo neutralizzare il triossido di arsenico o quantomeno renderlo visibile. Il risultato? Il calcio non sembra influenzare la presenza di arsenico in una soluzione. L’effetto protettivo di certe coppe, denti e corni vari potrebbe quindi essere una bufala d’altri tempi, magari diffusa da chi vendeva questi rimedi, a meno che non ci siano altri fattori che il giornalista e i ricercatori non hanno verificato: magari il veleno era diverso – pentossido di arsenico invece del triossido – oppure c’era qualcosa di particolare nella chimica delle bevande di allora. Magari qualcun altro approfondirà l’argomento.